A Col San Giusto, paese immaginario di poche anime, si è tolto la vita il Conte Desiderio Ancillotto, ingerendo una gran quantità di sonniferi con una bottiglia del suo prosecco biologico, a cui, come al solito, ha staccato l’etichetta per scrivervi sopra il motivo per cui è stata stappata.
Caso chiuso dunque? No, perché poco dopo la morte del Conte il piccolo comune diventa teatro dell’omicidio dell’ingegnere Speggiorin, direttore del cementificio. Sul caso indaga la Questura di Treviso.
Sarà l’ispettore italo-persiano Stucky (Giuseppe Battiston) a trovare il bandolo di una matassa solo in apparenza chiara, muovendosi tra le fitte distese di vigneti cresciuti intorno a un cementificio che insieme alla ricchezza e al lavoro ha portato forse qualcos’altro: è la ruggine che si posa coltivazioni e sulle tombe del piccolo cimitero di paese a cui fa riferimento la scritta “polvere sei e polvere tornerai” che si legge all’entrata della fabbrica?
Questa la trama di Finché c’è prosecco c’è speranza, noir diretto da Antonio Padovan, uscito nelle sale lo scorso 31 ottobre (qui il trailer).
Il film è tratto dal romanzo omonimo di Fulvio Ervas, che ha collaborato alla sceneggiatura.
Una pellicola dalla trama avvincente che ci fa riflettere sulla tutela del territorio e di chi lo abita e che vuole denunciare, nelle intenzioni del regista, “Proseccolandia”, nome con cui definisce il «frenetico luna park eno-finanziario» in cui è stata trasformato il trevigiano, sua terra di origine.
Personaggio centrale di questa denuncia è Desiderio Ancillotto, simbolo della lotta contro il “progresso scorsoio”, lo sviluppo assassino di cui parlava il poeta Andrea Zanzotto, anche lui originario dei luoghi del film. Il Conte infatti coltiva il prosecco senza pesticidi, perché suo nonno gli aveva insegnato – lasciando volutamente incolti 40 ettari di terreno di sua proprietà – che bisogna «prendere alle cose meno di quello che ci possono dare».
Il suo personaggio ci racconta dunque un modo diverso di coltivare, che è cosciente che la natura ha delle regole che vanno rispettate: un modello di agricoltura, diverso e consapevole del limite, portato avanti da una persona che ama tanto la sua terra da rattristarsi di averla lasciata peggio di come l’ha trovata. Contro l’idea radicata secondo cui “tutto quello che si può fare, si fa”, Desiderio Ancillotto coltiva il prosecco a suo modo, evitando, come proponeva l’ecologista Alexander Langer, di «fare certe cose che oggi sono già fattibili ma che non siamo assolutamente in grado di dominare» (di Langer avevamo già parlato qui).
È questo il motivo per cui il Conte è ricordato con affetto e stima dalla sua comunità: a differenza di tanti altri, non si è lasciato incantare dalla scoperta del nuovo oro locale, un prosecco che – come racconta all’ispettore Stucky il suo amico oste – fa «seppellire le persone in piedi per piantare un filare in più», perché «qui un ettaro di terra costa come una casa a Venezia».
Uno dei maggiori meriti del film è proprio mettere in luce che è l’amore per una comunità e per il suo territorio che fa scegliere come e cosa coltivare. La scelta del biologico da parte del Conte è motivata dalla volontà di prendersi cura di una terra, che sente come qualcosa che – come recita un famoso proverbio dei nativi americani – “ci è dato in prestito dai nostri figli”.
Ed è stata la stessa comunità del trevigiano che ha permesso al film di uscire nelle sale, grazie a tanti contributi privati che hanno sopperito all’assenza di finanziamenti pubblici per la realizzazione della pellicola. Un film da vedere, dunque, perché ci racconta che finché c’è comunità c’è speranza.
Luca Cirese- redazione Ecopolis
Film bellissimo.Dice cose sacrosante sulla difesa del Territorio,del Paesaggio e dell’Agricoltura del Veneto.