Discutere del futuro di cibo e agricoltura in Europa. Ora (e per i prossimi mesi) possiamo farlo!

mele_varietàLa Commissione europea ha da poco lanciato una consultazione pubblica sulla Politica Agricola Comune: facciamoci sentire, partecipiamo!

E’ bene ricordare che quasi il 40% del budget europeo, oltre 300 miliardi di Euro, sono reinvestiti nel comparto agricolo. Di questi, 85 miliardi sono destinati allo sviluppo rurale. Eppure l’Europa sta affrontando una profonda crisi su più fronti: economico, sociale, ambientale e sanitario. Ed è evidente che la Pac, così com’è stata pensata fino a oggi, non ha risolto i problemi all’ordine del giorno. Slow Food si batte da anni affinché al centro della politica europea ci sia la promozione delle produzioni di piccola e media scala, in armonia con le produzioni di territorio e con un sistema agro-alimentare locale e rispettoso dell’ambiente.

Ma fin quando la discussione sarà incentrata sulle politiche agricole i temi sociali, sanitali e ambientali resteranno sempre in secondo piano.

E allora perché non ribaltare la prospettiva? Il sistema alimentare può diventare la chiave di volta per dare una risposta alle varie crisi sul fronte europeo.

È quello che ho sostenuto, insieme a Olivier De Schutter nell’articolo pubblicato su Politico: bisogna pensare in grande, andare oltre la Pac e definire una Politica Alimentare Comune, che ponga al centro il cibo che consumiamo ogni giorno, con tutto quello che comporta scegliere un sistema produttivo piuttosto che un altro per la tutela del mondo in cui viviamo e per il benessere di ognuno dei cittadini europei.

È per questo che dobbiamo far sentire la nostra voce a Bruxelles: per disegnare un modello di società più equa, una campagna che torni finalmente a essere “verde”, una tavola ricca e salubre che non chiuda le porte a nessuno. Lo strumento c’è!

La Commissione europea ha lanciato una consultazione pubblica sulla Politica Agricola Comune, dando il via al lungo processo che porterà alla riforma in vigore dopo il 2020. Facciamoci sotto allora. Non lasciamo che sia un oste distratto a somministrarci la solita pappa pronta dal sapore amaro.

E’ tanto più necessario dopo l’approvazione, mercoledì scorso, del CETA, l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada. Chi ha a cuore il futuro dell’agricoltura di piccola scala e della produzione alimentare di qualità sperava che l’accordo venisse rigettato. Ancora una volta, infatti, siamo di fronte a una misura volta a promuovere, sostenere, difendere e affermare esclusivamente gli interessi della grande industria, a scapito sia dei cittadini che dei piccoli produttori. Non è un’esagerazione, così come non è un caso che l’opposizione a questo trattato abbia raccolto in pochi mesi 3,5 milioni di firme.

Facciamo un paio di esempi: oggi in Europa ci sono circa 1.300 prodotti alimentari a indicazione geografica, 2.800 vini e 330 distillati. Di tutti questi, il CETA così com’è scritto oggi ne tutelerebbe 173. Questo significa che denominazioni di origine che siamo abituati a considerare indicative di prodotti con un forte legame con un territorio e con una tecnica produttiva tradizionale e consolidata potrebbero essere imitati oltre oceano, senza essere passibili di alcuna sanzione. E il caso potrebbe avvenire anche al contrario, se non fosse che il Canada non ha un sistema di indicazione geografica delle produzioni.

Non basta? Allora un altro esempio: la carne europea ha standard di produzione decisamente più stringenti di quella nordamericana: gli ormoni per accelerare la crescita non sono ammessi, le carcasse non possono essere trattate con il cloro, sono richiesti standard di benessere animale e di dimensione delle fattorie. Questo fa sì che fino ad ora, grazie anche a politiche di protezione daziaria, nonostante la carne di maiale canadese costasse meno della metà di quella europea, il mercato interno potesse sopravvivere.

Il CETA non liberalizzerà (almeno per il momento) le tecniche produttive, ma toglie tutti i dazi sulle importazioni di carne. Considerando che le dimensioni medie di una fattoria di maiali in Canada sono di 2000 capi e quelle europee di meno di 500, che cosa stiamo chiedendo ai nostri allevatori per competere?

Carlo Petrini – Slow food

l’articolo sopra pubblicato è la ripresa di pezzi usciti su Slow food.it. Quello completo sul CETA è scaricabile qui

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