Inquinamento da Pfas: a cinque anni dalla denuncia quasi nulla è stato fatto per risolverlo

pfas_veneto_legambienteLegambiente Veneto torna sulla vicenda Pfas, uno dei più grandi disastri ambientali che questa regione ricordi, con un nuovo dossier (lo potete leggere qui) inviato alla commissione d’inchiesta parlamentare.

Uno studio che pone l’accento su alcune questioni già segnalate in passato, ma che necessitano di essere riprese alla luce di novità recentemente emerse e della sostanziale assenza di interventi significativi da parte della Regione Veneto nella gestione dell’emergenza.

Il dossier, presentato alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati, evidenzia l’inadeguatezza delle contromisure messe in atto dagli enti colpiti dall’emergenza dei Pfas (sostanze perfluoroalchiliche). Dal 2013, quando veniva acclarato l’inquinamento da Pfas delle acque di falda e delle acque potabili (ne abbiamo parlato qui), nessuna delle indicazioni provenienti dall’Istituto Superiore di Sanità – la rimozione in tempi brevi della fonte d’inquinamento o l’utilizzo di altre fonti di approvvigionamento – sono state completate dalla Regione Veneto, lasciando il territorio in grave stato d’emergenza.

Particolarmente grave risulta essere l’assenza di indicazioni precise per la vita quotidiana dei cittadini residenti nelle aree maggiormente a rischio. A partire dall’uso irriguo delle acque inquinate, nonostante un primo studio abbia riscontrato una contaminazione di almeno il 10% degli alimenti campionati in tutto il territorio esposto all’inquinamento da Pfas (ne abbiamo parlato qui). A tal proposito si attendono ancora dati ufficiali dal Piano di campionamento per il monitoraggio degli alimenti approvato ormai nove mesi fa, nonché uno studio sulle matrici alimentari, ancora assente.

Tali mancanze da parte degli enti si traducono nella reiterazione di pratiche potenzialmente dannose per la salute della popolazione, nonché dell’intero ecosistema: ad esempio si continuano ad usare le acque del canale irriguo LEB per “diluire” i reflui dei cinque depuratori della Valle del Chiampo, contenenti ancora alte concentrazioni di sostanze inquinanti.

Contemporaneamente, il biomonitoraggio umano per i residenti dell’area Rossa sta dimostrando che la contaminazione è consistente (ne abbiamo parlato qui), nonostante dai controlli siano escluse le fasce d’età a parere di molti più esposte agli effetti nocivi del Pfas, i soggetti in età pediatrica sotto i 14 anni e le persone anziane sopra i 65 anni. Ad aggravare la situazione c’è il fatto che le autorità sanitarie non hanno ancora fornito nessuna indicazione certa su come affrontare il problema nei contaminati.

Come fa notare Legambiente Veneto, sin dall’inizio di questa vicenda assistiamo ad una serie di rimpalli di responsabilità e competenze tra i vari enti locali, soprattutto tra la Regione Veneto e il Governo Nazionale per ciò che riguarda i fondi per la realizzazione delle nuove prese a servizio dei gestori dei servizi idrici e per l’istituzione di limiti normativi alla presenza di Pfas nelle acque. Situazione che ha determinato la grave impasse nelle operazioni di gestione della vicenda.

Alla luce di ciò e della relazione preliminare del Nucleo Operativo Ecologico dell’Arma dei Carabinieri, che accusa il gestore (attualmente la Miteni spa) di essere a conoscenza dell’inquinamento del suolo e dell’acqua nel proprio stabilimento e di non averlo mai comunicato agli enti competenti, appare dunque fondamentale il sostegno ed il potenziamento delle indagini del NOE per un territorio già pesantemente inquinato dal comparto industriale del bacino del Chiampo, e da un’economia agricola di modello intensivo.

sintesi a cura di Francesco Tosato, redazione di ecopolis