I governi mondiali giocano col fuoco, ma la perdita di biodiversità in corso è un evento catastrofico. L’articolo su META.
In un silenzio più o meno generalizzato, dopo due anni di ritardo, il 19 dicembre si è conclusa a Montreal la COP15 (United Nations Biodiversity Conference), in cui i rappresentanti di circa 190 governi si sono impegnati nell’adozione di un documento che garantisca la stabilità dei servizi ecosistemici negli 8 anni che ci separano dal 2030.
La firma del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (GBF) è un importante passo in avanti per fermare la perdita di biodiversità, la distruzioni di spazi naturali e per riconoscere i diritti e l’importanza dei diritti degli indigeni. Soprattutto considerando la vacuità degli Obiettivi di Aichi del 2010, era fondamentale aggiornare e aumentare l’impegno internazionale.
Questo accordo giunge in una situazione quantomai bollente, agli albori della crisi, spesso sottaciuta, della sesta estinzione di massa. Ben pochi scienziati, ad oggi, mettono in dubbio che l’umanità sia diventata la forza motrice sul pianeta in questa era, essendo per velocità di impatto e per tasso di mortalità paragonabile alle altre cinque grandi catastrofi degli ultimi 540 milioni di anni. La “sesta estinzione di massa” non è più solo una metafora, ma una realtà che si sta svolgendo proprio ora. Per questo motivo è fondamentale impedire che si continui a sfidare la sorte superando il limite planetario dell’erosione della biodiversità, limite che non può essere superato senza rischiare conseguenze catastrofiche.
Dunque, a fronte di ciò, cosa è stato stabilito a Montreal? Il punto fondamentale è la formula 30by30, ossia mettere entro il 2030 sotto protezione il 30% delle aree terrestri e marine del pianeta e la rigenerazione del 30% di aree già degradate. Un obiettivo sicuramente ambizioso, dato che ad oggi solo il 17% delle aree terrestri è protetto e di quelle marine solo l’8%. Considerato poi il ruolo che la rigenerazione degli ecosistemi ha sul clima nella capacità di sequestrare e accumulare il carbonio, aumentare le aree naturali può giocoforza aiutarci ad affrontare la crisi climatica. Dunque questa misura è utile sia come strategia per diminuire il tasso di perdita di biodiversità, sia come strategia per mitigare il cambiamento climatico.
Inoltre il GBF riconosce l’importanza strategica dei diritti e dell’integrità dei territori indigeni come un ulteriore mezzo per la conservazione naturale anche oltre alle aree protette. Questo è un fattore tanto più importante quanto più si considera la forbice d’ineguaglianza del Nord del mondo con il Sud, e dove la piena funzionalità dei servizi ecosistemici è quello che fa la differenza fra il benessere e la povertà assoluta. Ed è un risultato storico incredibile che sia stato creato un fondo annuo di 20-30 mld di dollari per trasferire risorse finanziarie dai Paesi sviluppati ai Paesi meno sviluppati, in particolare ai paesi più poveri e agli Stati insulari.
Gli altri obiettivi concordati, sono in tutto 23, riguardano le varie misure di monitoraggio di queste aree, la gestione responsabile di zone già esistenti dedite all’ agricoltura, pescicoltura e allevamento, l’eliminazione di e la protezione da le specie invasive, la decurtazione di 500 mld annui di sussidi dannosi per l’ambiente, e garanzie di accesso equo ad alle politiche ambientali.
Detto ciò, per quanto l’accordo finale sia un passo importante nella protezione della biodiversità, non è sicuramente sufficiente. Alcuni obiettivi rimangono vaghi e troppo flebili, come “la riduzione del rischio complessivo dei pesticidi” e di composti chimici pericolosi di almeno la metà, che non risolve affatto la battaglia sulla tutela degli impollinatori. Il fatto poi che l’accordo non sia vincolante, ma che la sua applicazione sia lasciata alla discrezione dei singoli Stati, mette a repentaglio le ambizioni espresse nel GBF, e considerando la sempre più piccola finestra temporale per un’azione efficace (si tratta di soli 8 anni), c’è da temere che l’impegno espresso a Montreal non sia abbastanza solido per interrompere di fatto l’estinzione di massa in corso.
Per un approfondimento sui benefici della rigenerazione degli ecosistemi, leggi questo articolo.
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Tiberio Moneta, Redazione Ecopolis