La probabile chiusura del buco nell’ozono ci dimostra che la cooperazione globale è la risposta alla crisi climatica.
Sono passati trentaquattro anni dall’entrata in vigore del Protocollo di Montréal, lo storico trattato internazionale firmato con l’obiettivo di ridurre la quantità di tutte quelle sostanze che minacciano lo strato di ozono in atmosfera.
Con la pubblicazione della nuova edizione (2022) del Rapporto scientifico quadriennale sulla riduzione dello strato di ozono, l’Organizzazione Meteorologica Mondiale, le Nazioni Unite e la Commissione Europea hanno definito il Protocollo di Montréal come un successo.
Infatti, le azioni intraprese sotto le indicazioni del Protocollo hanno fatto ridurre l’abbondanza di cloro e bromo derivanti dalle sostanze ozono lesive (per approfondire c’è questa utile pagina del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica).
Stando al rapporto, lo strato di ozono, molto probabilmente, si riformerà entro il 2040 in tutto il mondo. Ci vorrà più tempo per le regioni polari: 2045 nell’Artico, 2066 nell’Antartico
Il Protocollo di Montreal ha contribuito ad eliminare il 99% delle sostanze chimiche responsabili della riduzione dello strato di ozono, basti pensare ai clorofluorocarburi (CFC) in passato usati come solventi e refrigeranti.
Scoperto dagli scienziati nel 1985, il buco riguarda una parte sottile dell’atmosfera terrestre fondamentale nell’assorbire la maggior parte delle radiazioni ultraviolette che provengono dal sole. Senza lo strato di ozono, i danni alla salute umana (basti pensare ai rischi di cancro alla pelle) e agli esseri viventi in generale sarebbero senza precedenti.
Con questi timori, nel 1987 è stato firmato da 46 paesi il Protocollo di Montreal come un accordo con l’obiettivo di eliminare tutte le sostanze responsabili del buco nell’ozono. L’espansione del buco nell’ozono è andata avanti fino al 2000, per poi cambiare lentamente rotta cominciando a manifestare segnali di chiusura.
Il collegamento tra cambiamento climatico e buco nell’ozono, benché ridotto, sta nel fatto che tra le sostanze chimiche bandite dal Protocollo ci sono anche gas a effetto serra.
Come riportato dallo Scientific Assessment Panel del Protocollo di Montréal, un accordo del 2016, noto come “Emendamento Kigali” al Protocollo di Montréal, ha stabilito la graduale riduzione della produzione e del consumo di molti idrofluorocarburi (HFCs), i quali non hanno un effetto diretto nel risanamento dello strato di ozono ma sono invece potenti gas climalteranti.
Secondo le stime dello Scientific Assessment Panel, questo emendamento eviterà quindi l’aumento delle temperature globali di 0.3-0.5 gradi entro il 2100.
Tuttavia, come ha sostenuto Mag Seki, Segretario Esecutivo del Segretariato sull’Ozono dell’UNEP, non ci sono motivi per abbassare la guardia:
«A causa del successo del Protocollo di Montréal ci sono state tante notizie sul risanamento dello strato di ozono, il che è ottimo. Ma ora la gente pensa che il buco nell’ozono sia già relegato alla storia, che abbiamo fatto il nostro lavoro.
Ma in realtà abbiamo ancora un sacco di sfide davanti a noi. Prima fra tutte, abbiamo l’implementazione dell’Emendamento Kigali per ridurre gli idrofluorocarburi e affrontare il problema dell’efficientamento energetico, specialmente nei sistemi di raffreddamento. Gli stati membri stanno anche eliminando progressivamente gli HCFC e il loro uso esteso, […] così come quelle sostanze che possono ridurre l’ozono e che sono ancora presenti nei sistemi di raffreddamento che hanno raggiunto la loro “durata utile” e negli edifici»
Quindi che lezione possiamo imparare da questo risultato incoraggiante? Sempre citando Mag Seki:
«Le sostanze responsabili della riduzione dello strato di ozono erano largamente usate in molti settori della nostra economia – raffreddamento, elettronica, prevenzione degli incendi, aerosol, medicina, agricoltura. Misure e meccanismi innovativi erano necessari per far sì che queste sostanze che erano diventate così essenziali per la vita umana fossero eliminate senza disgregare il funzionamento della società. Per far sì che questo risultato fosse possibile, tutti i paesi, sviluppati e in via di sviluppo, hanno collaborato in una partnership globale».
Andrea Maiorca, Redazione Ecopolis