“Una rapida e diffusa transizione nel settore energetico, nella gestione del suolo, dell’urbanistica, delle infrastrutture e nel sistema industriale senza precedenti”: ecco quello che serve per fermare la febbre del pianeta.
A scriverlo è l’ultimo rapporto dell’IPCC (che solo a luglio è stato tradotto in italiano: lo trovate qui), il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU, uscito nei giorni scorsi. Per la prima volta forte l’accento sul tema della giustizia sociale connessa al tema ambientale.
A commissionare questo report speciale, gli stessi paesi che hanno siglato l’Accordo di Parigi nel dicembre 2015 (ne abbiamo parlato qui): in vista della COP24, che si svolgerà a dicembre in Polonia, è necessaria oggi una corretta ridefinizione degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni di CO2.
Secondo gli scienziati, che si basano sulle fonti più recenti della letteratura scientifica mondiale, gli attuali impegni presi dai singoli Stati con gli Accordi di Parigi non sono affatto sufficienti: gli attuali target non solo porterebbero a oltrepassare la soglia di + 1.5°C – come richiede la COP21 di Parigi – ma renderebbero entro fine secolo il pianeta più caldo di ben 3°C rispetto alla temperatura media globale pre-industriale.
Ad oggi le attività antropiche hanno già causato l’aumento di circa 1°C; e, per limitare l’aumento a 1.5°C, dicono gli scienziati nel rapporto, servirà che gli Stati raddoppino gli obiettivi nazionali siglati con l’Accordo di Parigi, riducendo del 45% le emissioni di CO2 entro il 2030 rispetto ai valori del 2010 e azzerandole entro il 2050. In altre parole, abbiamo 12 anni per dimezzare le emissioni, e 32 anni per mandare in pensione i combustibili fossili e rimpiazzarli del tutto con le energie rinnovabili.
L’IPCC calcola che, per poter riuscire a mantenere fede all’obiettivo di contenimento della temperatura fissato dall’Accordo di Parigi, saranno necessari investimenti del valore di 2,4 trilioni annui di dollari tra il 2016 e il 2035, pari al 2,5% del PIL mondiale.
Il rapporto ONU propone inoltre tutta una serie di misure di adattamento al cambiamento climatico, come la raccolta di acque piovane e la piantumazione di alberi in città, da mettere in atto a prescindere dal contenimento dell’innalzamento della temperatura entro 1.5°C. Ma serve anche, secondo gli scienziati, far comprendere la gravità del fenomeno grazie all’informazione e sviluppare di approccio di comunità per affrontare il problema e rispettare i traguardi posti dalla COP21.
Le conseguenze del mancata inversione di rotta sarebbero infatti devastanti per gli ecosistemi e per l’umanità: già oggi è aumentata intensità e frequenza degli eventi meteorologici estremi come ondate di calore e inondazioni (ne abbiamo parlato qui) così come, senza una riduzione delle emissioni, si prevede anche un peggioramento della desertificazione, della perdita di biodiversità e dell’innalzamento del livello del mare.
E un aumento esponenziale della temperatura avrebbe, allo stesso tempo, effetti diretti sul genere umano: dall’insicurezza alimentare all’acqua come risorsa scarsa, dal danneggiamento delle città alla guerra per accaparrarsi le risorse, fino alle migrazioni forzate di centinaia di milioni di persone nei prossimi decenni in assenza di piani di adattamento. Tanto maggiore sarà l’aumento di temperatura, tanto più queste conseguenze saranno acuite.
Il principale fattore con cui fare i conti quando si tratta di lotta al cambiamento climatico è il tempo: quanto più rapidamente riusciremo a tagliare le emissioni di gas-serra, tanto minore sarà il rischio connesso agli effetti catastrofici del cambiamento climatico e il costo per un non più rimandabile adattamento.
“Siamo la prima generazione che subisce gli effetti del cambiamento climatico e l’ultima generazione che possa agire per fermarlo”: la frase di Barack Obama, confermata dal rapporto dell’IPCC, ci ricorda che scelte sostenibili da parte di ciascuno per evitare un futuro invivibile non sono più rimandabili.
Carlo Zanetti – redazione ecopolis
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