A Glasgow la grande richiesta di misure radicali viene frustrata da impegni generici e rinvii temporali. Nel frattempo la crisi climatica avanza e il tempo per agire è sempre meno.
Da fine ottobre a metà novembre si è tenuta a Glasgow, in Scozia, la 26esima Conferenza delle Parti (COP26) sul Clima organizzata dalle Nazioni Unite, alla quale hanno partecipato quasi 200 paesi del mondo, con l’obiettivo di impegnarsi in iniziative condivise per contrastare il riscaldamento globale.
Come ogni COP, anche quella di Glasgow è nata per perseguire obiettivi ben precisi, stabiliti sulla base degli impegni presi nelle conferenze precedenti. Gli ultimi appuntamenti hanno infatti dovuto definire meglio alcuni degli obblighi citati nell’Accordo di Parigi (COP21, 2015), come i meccanismi per verificarne il rispetto. A Glasgow, in particolare, si è provato a definire un metodo per assicurarsi che i paesi rispettino gli NDC – Nationally Determined Contributions, ovvero gli impegni sulla riduzione delle emissioni di gas serra, scelti in maniera autonoma e volontaria dai paesi che se li sono presi, sia dal punto di vista quantitativo (di quanto ridurre le emissioni e rispetto a quale anno di riferimento) sia qualitativo (in che modo farlo).
Oltre alla riduzione delle emissioni in linea con la soglia critica di 1.5°C, altre questioni chiave per determinare il successo o decretare il fallimento della COP26 erano: garantire impegni concreti per accelerare l’adattamento ai cambiamenti climatici; mettere a disposizione risorse per fronteggiare le perdite e i danni delle comunità più colpite dall’emergenza climatica; finanziare adeguatamente l’azione climatica dei paesi poveri; e completare il Rulebook, ossia le norme attuative dell’Accordo di Parigi, per renderlo finalmente operativo
Come giudicare quindi il documento finale emerso dalla COP26? Secondo Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente l’Accordo di Glasgow è inadeguato a fronteggiare l’emergenza climatica.
Seppur prova a mantenere ancora vivo l’obiettivo di 1.5°C, punta in realtà più all’obiettivo dei 2°, come era stato fatto a Parigi sei anni fa. Mezzo grado di differenza comporta di accettare assai più ingenti perdite economiche e di vite umane a causa degli effetti di una ben più grave crisi climatica.
Tra i punti dolenti, Legambiente individua la previsione di un’uscita solo “graduale” dalle fonti fossili. Nel testo finale si parla infatti di «Phase down» del carbone, invece che di «Phase out», una modifica dell’ultimo minuto chiesta e ottenuta soprattutto da India e Cina che indeboliscono così il Glasgow Climate Pact (la dichiarazione finale). In sostanza, il phase-out dei sussidi alle fossili è previsto solo per i sussidi inefficienti e il phase-out dal carbone solo per le centrali “unabated” ossia senza CCS (cattura e sequestro del carbonio). Sarà possibile quindi continuare a bruciare carbone, a patto di ridurne il rilascio di gas serra nell’atmosfera. Così come sarà possibile continuare a dare sussidi ai combustibili fossili eliminando solo quelli inefficienti.
Un altro impegno chiave disatteso riguarda l’inadeguatezza delle misure per le comunità più vulnerabili. Nessun passo in avanti è stato fatto sulla creazione del fondo Loss and Damage Facility per aiutare i paesi poveri a fronteggiare la crisi climatica, e mancano ancora garanzie sul fondo di 100 miliardi di dollari l’anno ai paesi in via di sviluppo, al quale anche il nostro è tenuto a contribuire. Infine, nessun riferimento all’economia circolare, altra grave lacuna della dichiarazione finale.
Molto è stato quindi rimandato alla prossima COP, che si terrà in Egitto, quando la necessità di misure concrete e radicali sarà ancora più forte e il tempo per farlo sempre meno.
Francesco Tosato, redazione Ecopolis