Nella Sala dei Giganti di palazzo Liviano lo scorso 1o marzo, è andato in scena, grazie all’ASU, uno splendido spettacolo di teatro civile, che fa riflettere sul peso delle scelte individuali, anche nelle situazioni più drammatiche.
Con La scelta. E tu cosa avresti fatto? Marco Cortesi e Mara Moschini ci narrano quattro storie di scelte radicali dentro l’orrore della recente guerra balcanica. Il loro obiettivo è fare memoria, ricordando una guerra drammatica e dimenticata, avvenuta solo a pochi chilometri dai nostri confini orientali.
Ventisei anni fa cominciava il più sanguinoso conflitto europeo dalla fine della Seconda guerra mondiale: con la morte del presidente Josip “Tito” Broz iniziò la dissoluzione della Repubblica Socialista Federale e, assieme ad essa, una guerra che detiene, ci racconta lo spettacolo, alcuni terribili primati, tra cui il più alto numero di civili uccisi.
Lo spettacolo, giunto quasi alla sua 600a replica nel mondo, si è tenuto – scelta o destino? – proprio il giorno dell’anniversario della fine dell’assedio di Sarajevo, il più lungo assedio avvenuto nella storia moderna, durato per 1427 giorni: dal 5 aprile 1992 – la data del referendum che, sebbene boicottato dai serbo-bosniaci, aveva sancito quasi all’unanimità l’indipendenza dalla Repubblica Federale – sino al 29 febbraio 1996.
Durante l’assedio caddero ogni giorno sulla città, secondo le stime delle Nazioni Unite, una media di oltre 300 proiettili di artiglieria. Le vittime, calcola l’ONU, furono circa diecimila, tra cui 1.500 bambini: moltissime le persone morte per fame o sotto i colpi esplosi da cecchini serbi sulla popolazione civile. “Welcome to Hell”, ascoltiamo nello spettacolo, si leggeva sui muri della Sarajevo assediata dai serbi.
Le storie proposte in scena raccontano l’altra faccia della guerra e della pulizia etnica condotta contro i musulmani bosniaci, una violenza di cui Srebrenica è divenuta città-simbolo. Sono storie di coraggio e di fratellanza avvenute nei luoghi della guerra: tre di esse sono tratte dal libro I giusti nel tempo del male. Testimonianze del conflitto bosniaco di Svetlana Broz, nipote di Tito, testo pubblicato da Erickson nel 2008.
La storia più commovente è ambientata in Bosnia-Erzegovina, in uno degli stati più multietnici della Repubblica prima della guerra. Ratko Mladić, generale serbo, sta compiendo il genocidio contro la maggioranza musulmana che lo farà passare alla storia come “macellaio di Bosnia”: maschi di ogni età vengono trasportati in autobus nei luoghi delle esecuzioni. Con la recitazione di Cortesi entriamo con intensità nella mente di un autista serbo addetto al trasporto di bambini e ragazzi “bosgnacchi”: per non consegnarli ai loro assassini, sceglie di disobbedire ai militari suoi connazionali, mettendo a rischio la sua stessa vita.
Bellissima anche la storia di apertura su Gabriele Moreno Locatelli, “beato costruttore di pace”: nel 1993 venne ucciso da un cecchino su un ponte a Sarajevo perché voleva depositare un fiore in ricordo della prima vittima della guerra bosniaca. Una morte che ci porta all’ultimo triste primato di questa guerra, il maggior numero di italiani morti in una guerra che non ci vedeva come protagonisti.
Lo spettacolo narra storie realmente accadute di persone che Alexander Langer, ecologista e costruttore di pace, avrebbe chiamato «traditori della compattezza etnica»: uomini e donne che rifiutano un’appartenenza rigida alle proprie radici, per incontrare e, in questo caso, aiutare, persone di diverse origini etniche e religiose, nonostante i rancori e la catena della violenza che sta montando fino all’orrore. Sono racconti di speranza e insegnamento in giorni segnati da odi etnici e paura della diversità: che ci siano di monito come le molte “Rose di Sarajevo“, le tracce delle esplosioni delle granate in seguito riempite di resina rossa per non dimenticare la violenza dell’assedio.
Luca Cirese – redazione ecopolis
La guerra civile che portò alla dissoluzione della Jugoslavia nacque dal disfacimento del collante ideologico “socialista” che aveva tenuto unito il paese.
La cosa non deve meravigliare. Il nazionalismo è oggi il principale fattore che oggi garantisce il potere “post-comunista” in Russia come in Cina o Vietnam.
La crisi politica dei Balcani riportò in auge tutti quei fattori di separazione che vi sono sempre stati. Saremmo dei ciechi se non ammettessimo a noi stessi che le religioni hanno prevalso sull’ideologia.
La violenza del assedio di Sarajevo la potremmo presto rivedere anche in Italia, qualora i flussi migranti supereranno una certa soglia percentuale sui residenti.
Invocare pace, non la procurerà. ( Non dimentico che i frati francescani in Bosnia, da 400 anni presenti in Erzegovia, trafficavano armi per i cattolici)
Nelle settimane scorse un pezzo del Espresso raccontava di infiltrazioni di fondamentalisti islamici dai Balcani verso l’Italia.
Questo ora è il focus.
Gentile Lina,
qui nessuno invoca la pace. Dalla cultura nonviolenta ho imparato che la pace non si invoca ma “si fa”, si costruisce. Ho recensito questo spettacolo proprio perché so quanto di questi tempi la storia della guerra balcanica ci possa indirizzare. E non è troppo diverso da quello che lei dice sull’Assedio di Sarajevo in Italia. Ma la sua è una sincera preoccupazione o piuttosto una terribile provocazione? Perché, sebbene i flussi migratori degli ultimi anni siano stati in Italia più alti che nel resto d’Europa, la popolazione migrante rimane decisamente più bassa (1.1%) rispetto ad altri paesi, europei e non: mentre, in Bosnia fu la maggioranza della popolazione, quella bosgnacca, ad essere oggetto di pulizia etnica per mano dei serbi cristiani.
E però, nonostante la minima presenza di migranti, vediamo purtroppo in Italia tanta paura della diversità che già alcune volte è sfociata in atti di violenza: se la ricorda la strage di Firenze del 2011?
Abbiamo bisogno quindi, anche in Italia, di lavorare per la convivenza, come hanno fatto i “costruttori di pace” in ex-Jugoslavia. Servirà, e non sarà facile, creare spazi e luoghi di incontro e reciproca comprensione, per tenere insieme la nostra società. Se è sinceramente preoccupata dell'”emergenza migranti”, non le piacerebbe aiutarci?