Provate a immaginare oggi, con questo bombardamento di notizie su un virus che fa paura a noi tutti, di essere rinchiusi in una galera sovraffollata, sentir parlare della necessità di stare almeno a un metro di distanza l’uno dall’altro e sapere che il tuo vicino di branda sta a pochi centimetri da te, in una pericolosa promiscuità dettata dagli spazi ristretti.
Sentir dire che è un virus che può diventare mortale se attacca persone indebolite dalla malattia e vedere che le persone che hai intorno sono spesso debilitate da un passato di tossicodipendenza e che altre e più gravi patologie coesistono con la detenzione; avere una vita povera di relazioni e vedere dapprima “sparire” tutti i volontari, di colpo non più autorizzati a entrare in carcere, e poi improvvisamente anche i famigliari. Veder sparire le già poche possibilità di formazione e istruzione e dover riempire le giornate con il nulla e la paura. C’è di che perdere davvero la testa.
Se c’è un valore di cui il Volontariato è portatore sempre è quello della nonviolenza, quindi niente si può giustificare di quello che sta accadendo in questi giorni nelle carceri, ma abbiamo anche il dovere di cercare di capire la disperazione che c’è dietro certi gesti: sette detenuti morti a Modena, forse per aver ingerito del metadone, sono comunque l’espressione della sofferenza e della solitudine che caratterizzano più che mai oggi la vita detentiva.
Quando con una qualità della vita già così bassa interviene una catastrofe come quella del Coronavirus, pensare che persone che la violenza l’hanno sperimentata spesso nel loro passato possano agire con ragionevolezza è solo un’illusione. Se, come chiediamo da tempo, le persone detenute potessero avere dei rappresentanti eletti, sarebbe almeno un po’ più facile cercare di responsabilizzarli in una situazione così grave.
Imparare a rifiutare qualsiasi violenza è un aspetto fondamentale della rieducazione, su cui noi volontari ci battiamo senza sosta con le persone detenute, ma sono percorsi lunghi e complessi, che comportano un’adeguata formazione/informazione e un confronto costante. Ed è per questo che capiamo anche quanto drammaticamente difficile sia per la Polizia penitenziaria affrontare conflitti violenti come quelli di questi giorni, e far fronte a questa emergenza spesso senza adeguate e dettagliate informazioni, e senza i prescritti dispositivi di protezione individuali. E quanto importante sia che quello che sta succedendo in questa tragica emergenza non interrompa, ma anzi sviluppi e rafforzi il dialogo che deve esserci sulla finalità rieducativa della pena. Ecco quello che noi volontari, parte di quella società civile che accompagna le persone detenute nei percorsi di reinserimento, proponiamo:
- di istituire presso ogni Istituto di pena una specie di Unità di crisi che coinvolga rappresentanti di tutti gli operatori, compreso quel volontariato che fa così comodo nella quotidianità della vita carceraria, ma che è più facilmente “sacrificabile” nei momenti di vera emergenza, quando il suo apporto, la sua capacità di mediazione e di comunicazione sarebbero fondamentali;
- di dare ordine ed efficacia alle misure, relative alla tutela degli affetti, uscendo dalla genericità di formule come quella adottata in questi giorni, che dice che “I colloqui visivi si svolgono in modalità telefonica o video, anche in deroga alla durata attualmente prevista dalle disposizioni vigenti”. Le telefonate dovrebbero essere liberalizzate come avviene in molti Paesi europei, e però programmate per permettere a tutti di chiamare casa ogni giorno; andrebbe istituito un fondo per chi non ha soldi nel conto corrente e studiata la possibilità di far usare ai detenuti stranieri le tessere prepagate.
C’è poi una circolare del DAP che invita a istituire i colloqui via Skype in tutti gli istituti, va monitorata la situazione per capire quali carceri abbiano già applicato la circolare e vanno organizzate più postazioni in ogni istituto, allargando anche ai detenuti di Alta Sicurezza la possibilità dei colloqui via Skype.
Va inoltre ridato al Volontariato il ruolo di sostenere e aiutare le persone detenute a restare in contatto con le loro famiglie, in modo particolare in un momento così delicato.
Ci sono in carcere 8682 persone detenute con meno di un anno di residuo pena, 8146 persone detenute con da uno a due anni di residuo pena, persone quindi destinate ad uscire presto. Sono persone che non devono intasare le carceri e rendere ancora più difficile affrontare l’emergenza sovraffollamento e quella Coronavirus.
Quello che si può fare subito è creare le condizioni perché vengano concesse più misure alternative: quindi dove è possibile l’affidamento in prova ai servizi sociali, che è la misura più compiutamente efficace per il reinserimento delle persone detenute nella società e anche per la sicurezza della società stessa, e poi la detenzione domiciliare negli ultimi due anni della pena. A partire da tutte le persone anziane e dai malati, che devono essere al più presto rimandati a casa. E se non hanno dove andare, crediamo che la rete delle Comunità di accoglienza possa dare una mano a trovar loro una sistemazione dignitosa. Questo ridurrebbe sensibilmente il numero delle persone in carcere e contribuirebbe ad alleggerire le tensioni e ad affrontare più efficacemente l’emergenza sanitaria.
In un paese convulso, irrazionale, spaventato come il nostro crea scandalo e smarrimento dire che una soluzione come due anni di indulto e un’amnistia per reati di non particolare gravità sarebbe un modo serio per riportare le carceri alla decenza e alleggerire i tribunali, già sfiancati dal virus. Però dobbiamo cominciare a parlarne, con la consapevolezza che è pericoloso oggi creare inutili illusioni tra le persone detenute e i loro famigliari. Facciamo in modo che sia garantito il diritto alla salute anche a chi ha sbagliato e sta scontando una pena, è il modo giusto per sentirsi parte di una comunità e affrontare con meno paura il futuro.
Ornella Favero
presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia