Sextantio: l’albergo diffuso che risveglia un borgo abbandonato

5_santo-stefano1Il tema del recupero e della rivitalizzazione dei borghi abbandonati s’incrocia, a partire dagli anni ottanta, con la trasformazione della domanda turistica. Di fronte alle nuove forme del turismo, che oltre allo svago mettono in primo piano i temi della conoscenza dei luoghi, delle specificità alimentari, delle tradizioni locali, parte della risposta è andata nella direzione della scoperta di luoghi abbandonati e del loro successivo recupero. Obiettivi che si sposano anche con le visioni innovative a cui il mondo produttivo è costretto: lo ricorda Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, quando parla di «Ripensare alla forma dello svilupposignifica fermare il consumo del suolo e mettere in moto dei cicli di benessere che passano nei settori tradizionali ma vadano in direzioni nuove». In questo processo s’incrociano strettamente i temi del recupero e della conseguente riqualificazione edilizia, oltre che del ripopolamento di luoghi abbandonati, della manutenzione e conservazione del paesaggio, nonché della necessaria collaborazione tra le amministrazioni, che definiscono i paletti entro i quali il privato, che sostiene finanziariamente l’operazione, può muoversi nel suo progetto di recupero. A differenza della più nota consuetudine dell’acquisto del borgo da parte della grande società, che provvede al suo restauro con una sorta di tabula rasa, uno dei casi maggiormente noti all’attenzione del pubblico, emerso nel corso dell’ultimo decennio, è quello abruzzese di Santo Stefano di Sessanio (in provincia de L’Aquila, a 30 chilometri dal capoluogo, nel Parco del Gran Sasso e della Maiella, a 1250 m di quota, nei pressi di Campo Imperatore), dove il recupero del borgo viene attuato mediante la realizzazione di un albergo diffuso, in una operazione che lega strettamente l’imprenditorialità privata con la popolazione residente del luogo.

L’albergo diffuso

Concetto nato a seguito del terremoto in Friuli del 1976, ispirato a Comegliansdal poeta Leonardo Zanier e materializzato grazie all’architetto Carlo Toson, poi elaborato da Giancarlo Dall’Ara (presidente dell’Associazione nazionale alberghi diffusi e docente di marketing turistico), che ne ha sistematizzato esperienze e pratiche, l’albergo diffuso si connota per la distribuzione all’interno del nucleo urbano di stanze e attività di supporto, comunque limitate a un raggio di 300 m rispetto all’attività principale. Questo tipo d’investimento permette la salvaguardia del tessuto urbano esistente, attraverso la sua riqualificazione che passa attraverso un nuovo utilizzo, il rilancio dell’economia locale e tende progressivamente a riportare in vita gli stessi paesi abbandonati grazie all’effetto indotto. La normativa in materia copre tutte le regioni (eccetto il Molise), a partire dalla Sardegna che nel 1998 si è dotata della prima legge specifica, per arrivare all’Abruzzo che ha approvato la propria nell’agosto 2013. Attualmente gli alberghi diffusi in Italia sono 80 e accolgono in egual misura turisti italiani e stranieri: il 46% arriva dall’estero (Germania e Francia con il 20 e il 14% dei clienti), poi americani e piccole quote di russi e cinesi (3,4%).

Santo Stefano di Sessanio

Alla base del progetto di recupero voluto e condotto da Daniele Kihlgren (con l’architetto Lelio Oriano Di Zio), un imprenditore italo-svedese che ha destinato il suo patrimonio personale a questa impresa (e che la sta raddoppiando nei Sassi di Matera), sta l’intento di riportare in luce il vissuto secolare del borgo. L’obiettivo non è quello del restauro fine a se stesso, mirato all’attività ricettiva, quanto alla ricostituzione della rete di relazioni e attività economiche che formano la base di una comunità. Per arrivare a questo, a fianco della ricostruzione degli edifici, condotta con una tecnologia poco invasiva e recuperando materiali antichi, riciclando porte, infissi, mobili, con l’obiettivo di restituire l’aura del borgo, e di far vivere ai turisti, oltre ai lussi della contemporaneità (riscaldamento a pavimento, wi-fi, acqua corrente), anche una sottile spartanità del vivere antico, sta una ricerca antropologica (condotta da Nunzia Maraschi) che ha recuperato, scavando nella tradizione paesana, metodi di lavoro, tessuti, coltivazioni e fornendo prodotti alimentari a km 0. Ecco che lenzuola, coperte, tappeti sono tutti stati realizzati appositamente riprendendo vecchie manualità e filatoi antichi che stavano quasi per scomparire.

«Il restauro del borgo parte dal concetto del patrimonio storico comune. Siamo lontani qui da un’architettura rinascimentale o monumentale. Il patrimonio qui è dato dall’integrità tra il costruito storico come un unicum, quasi fosse un unico palazzo. Il vero patrimonio è il territorio che forma il paesaggio, che deve diventare oggetto della tutela per le generazioni a venire», racconta Kihlgren. «Le architetture erano realizzate per i bisogni fondamentali delle civiltà locali, che erano popolazioni povere. Un’architettura in cui non esiste assolutamente la suddivisione tra l’architetto e il mastro. E la conseguenza di questo sono due elementi: il primo è il fatto di usare materiali di recupero, come già facevano in origine. Qui siamo in rapporto con l’architettura diversa, più vicina alle esigenze proprio del vissuto. L’altro elemento importante per me è quello di mantenere un’unità estetico affettiva dell’insieme; e uso questo termine perché le considero bellezze molto “di pancia”. Quello che voglio mostrare è la pura sedimentazione del tempo: se c’è un muro annerito dal tempo, è inutile farlo bianco, inutile costruire uno stacco. Voglio che le persone siano stupite da un muro, dai mobili, dai pavimenti, dalle finestre».

Il processo, iniziato con le prime acquisizioni immobiliari nel 1999 e i primi cantieri nel 2004 (per un investimento al momento di 18 milioni), sta mostrando i suoi risultati: gli abitanti sono ora 120, i posti letto da una decina sono diventati 350, gli alberghi da 1 a 20. A questi si aggiungono negozi di artigianato, prodotti tipici e ristoranti. Anche il trend demografico si è invertito: nel corso del 2013 si sono registrate tre nascite.

Cardine del progetto è la stretta partecipazione degli abitanti: Kilhgren s’impegnò come primo firmatario al rispetto della Carta dei valori, un documento co-firmato con amministrazione comunale e Parco del Gran Sasso e della Maiella per «rimuovere i detrattori della qualità architettonica e ambientale presenti in Santo Stefano di Sessanio e nel suo circondario; rispettare le qualità e l’autenticità di ogni singolo immobile, tutelare l’ambiente agricolo circostante, avviare e/o sostenere iniziative finalizzate ad uno sviluppo turistico sensibile».

Questo ha portato – oltre a una conservazione dei manufatti che hanno passato sostanzialmente indenni il terremoto del 2009, al contrario della Torre Medicea, simbolo del borgo, crollata sotto il peso della piastra di cemento realizzata a fine anni novanta durante precedenti restauri – anche dall’adozione da parte del Consiglio comunale del Documento programmatico Linee e indirizzi per l’elaborazione del Prg del Comune di Santo Stefano di Sessanio. Con questo atto, il 29 novembre 2013  l’amministrazione ha definito uno spazio di 500.000 mq attorno al nucleo centrale, nei quali vige l’inedificabilità assoluta, allo scopo di salvaguardare l’integrità e l’unità del borgo, a differenza delle norme precedenti in accordo alle quali era prevista la possibilità di trasformazione per espansioni e attrezzature ricettive. La normativa approvata mette in evidenza come sia possibile raggiungere l’obiettivo della rivitalizzazione di un centro abbandonato attraverso un percorso che non utilizza il meccanismo della nuova edificazione, quanto quello del recupero dell’esistente.

Julian W. Adda