Come e quanto spesso la politica usa e abusa della parola ‘cittadino’ per giustificarsi, ce lo racconta META.
Qualche volta l’affermazione che una decisione è basata sull’opinione pubblica è del tutto priva di fondamento. Rendersi conto di ciò è ancora più importante ora che
le persone si stanno sempre più interessando alle questioni climatiche e che per i politici e per le autorità pubbliche è sempre più importante far credere ai cittadini che le loro preoccupazioni nelle decisioni ambientali sono tenute in conto. Ma quando il pubblico è coinvolto troppo tardi, o una consultazione pubblica raccoglie poco consenso, o gli interessi lobbistici superano le preoccupazioni degli individui, legittimare una decisione sparando là la parola ‘cittadino’ in un discorso o in una conferenza stampa è disonesto; diventa citizenwashing.
Quando si parla di politiche ambientali, il citizenwashing è usato dalle autorità pubbliche più o meno come il greenwashing nelle aziende: è un modo per i politici e gli enti pubblici di dare l’impressione di avere una buona amministrazione senza calarsi davvero fra le diverse prospettive riguardo alle politiche climatiche.
In molti casi, il citizenwashing è il risultato di una cattiva progettazione dei processi partecipativi. Per esempio, la Conference on the Future of Europe – il forum più ambizioso ad oggi dell’UE – ha affrontato critiche per non avere impostato in modo chiaro nelle sue fasi iniziali il modo in cui le opinioni dei partecipanti sarebbero state prese in considerazione.
In altre occasioni, il citizenwashing sembra essere intenzionale. Un esempio sono i dati dei sondaggi travisati ad arte durante la discussione sulla Brexit. Affermare di sapere cosa le persone vogliono senza chiederglielo è già sbagliato abbastanza, ma distorcere le loro risposte e opinioni è ancora peggio, specialmente quando nel mix ci sono gli importanti interessi lobbistici.
Qui l’articolo di Ruby Silk su Meta.
Tiberio Moneta, Redazione Ecopolis