In un universo giovanile definito, sprezzantemente, “choosy” e “bamboccione”, qualcuno sceglie la via, non priva di pericoli, dell’impegno serio: narrare la criminalità organizzata.
Un gruppo di giovanissimi studenti di Reggio Emilia fonda un’Associazione (Cortocircuito) che inizia a documentare con minifilmati, videointerviste e ricerche web, quanto accade di malaffare sospetto nel proprio territorio cittadino.
Si scopre con la prima inchiesta, su una discoteca abitualmente prescelta per le tradizionali feste liceali, che si tratta di un luogo affiliato alla ‘ndrangheta dedito allo smercio di denaro sporco.
Altre inchieste riguarderanno incendi a carattere doloso avvenuti a Reggio Emilia nel 2012. Ma soprattutto la videoinchiesta La ‘ndrangheta di casa nostra. Radici in terra emiliana, con una serie di interviste ad amministratori, appaltatori e dirigenti, finirà per attirare l’interesse della DIA e divenire materiale probatorio nel corso del procedimento a carico della cosca calabrese Grande Aracri, da tempo operante in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto.
Elia Minari, studente di giurisprudenza all’Università di Bologna e fondatore dell’Associazione, ha ricevuto a Firenze nel 2014, dalle mani del presidente del Senato Pietro Grasso, il Premio Scomodo termine quanto mai appropriato per la sua meritoria attività di denuncia.
Come diceva Pippo Fava, giornalista ucciso dalla mafia nel 1984: Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente in allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo.
Con le inchieste di Cortocircuito ha fatto i conti il sindaco di Brescello Marcello Coffrini quando, al microfono degli studenti, si lasciò andare a una discutibile serie di considerazioni e giudizi positivi verso il boss “benemerito” Francesco Grande Aracri. Come il sindaco, anche il parroco Don Evandro Gherardi che, tra decisi dinieghi dal pulpito su quanto denunciato, pittoresche processioni alla Don Camillo, inopportuni banchetti post liturgici, ha contribuito all’affossamento definitivo di quell’ingenuo e bonario luogo ideato dalla penna di Guareschi.
A Reggio Emilia un processo-monstre, in un’aula-bunker con 150 imputati e oltre 300 testimoni dopo due anni si chiude con lo scioglimento del Consiglio Comunale. Tutto grazie all’attività investigativa di Elia Minari e dei suoi collaboratori.
Elia è stato relatore in oltre 220 incontri pubblici. Delle sue inchieste hanno parlato le tv e diversi giornali stranieri. Ha ricevuto il premio Iustitia dall’Università della Calabria e il premio Resistenza dalle mani di Salvatore Borsellino.
Guardare la mafia negli occhi è un libro che restituisce appieno il senso dell’impegno civico di questo giovane e competente giornalista: smascherare l’attuale volto nuovo della ‘ndrangheta.
Non più lupare e coppole, ma un’immagine ripulita grazie a trasmissioni TV compiacenti e interviste di giornali servili. Inoltre: un utilizzo sofisticato e strategico dei social media; il coinvolgimento opportunista-filantropico per ogni evento popolare, soprattutto sportivo, tale da catalizzare il massimo dei consensi; l’assoldamento di professionisti autoctoni, nel settore edilizio o altro, dotati di adeguata credibilità. E, purtroppo, pure la complicità di servitori dello Stato.
Tutte nuove modalità atte a pervadere e incidere criminosamente in territori ancora integri da infiltrazioni malavitose organizzate.
Scrive nella prefazione del libro il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti: la vera forza delle mafie è fuori dalle mafie. E anche noi, qui nel Veneto, cominciamo a comprenderlo molto bene.
Flavio Boscatto – redazione ecopolis