“L’orto vuole l’uomo morto” dice il vecchio detto. È così, specialmente d’estate, il lavoro è tanto, la terra sempre troppo bassa ed il sole sempre troppo alto.
Ma in un’epoca sempre più digitalizzata, connessa e globalizzata, coltivare anche un piccolo pezzetto di terra è uno dei pochi modi che abbiamo per ricordarci che l’essere umano è inserito in un ecosistema, che ci chiede sempre conto di tutte le nostre attività che ne minano il delicato equilibrio.
Questa semplice attività è forse l’esperienza che più ha segnato gli ultimi tre lustri della mia vita, periodo in cui, tanto per fare qualche esempio, ho acquistato una nuova casa, ho cambiato due volte datore di lavoro, le mie bambine sono diventate donne, ho contribuito a fondare e far crescere un circolo di Legambiente.
Tutte cose molto importanti, bellissime, che ti riempiono di soddisfazione, ma il rapporto con la terra è un’altra cosa: è resistenza, fatica, sudore, gioia, passione, concretezza, scambio.
Quando ho iniziato, 15 anni fa, non sapevo bene cosa dovevo fare, mi guardavo attorno spaesato e vedevo gli altri assegnatari degli orti sociali lavorare alacremente le zolle, costruire palizzate, raccogliere i propri prodotti e giustamente vantarsene.Pian piano ho cominciato a chiedere consigli, imparare piccoli segreti, con la dovuta umiltà che invece il mondo “artificiale” ti insegna essere sinonimo di debolezza e scarso valore.
E i frutti sono venuti, ma soprattutto è arrivata la conoscenza e la confidenza con la terra, quella cosa marrone, secca o fangosa, argillosa o sabbiosa, che sta sotto i nostri piedi, così modesta e così indispensabile.
Inutile dire che il momento più bello è quello della raccolta. Che orgoglio portare a casa una cesta di verdura sana e freschissima. E poi il sapore! Chiunque abbia provato potrà confermare che la fragranza di un vegetale raccolto dalla pianta e mangiato, cotto o crudo, in giornata non ha nulla a che vedere con il prodotto acquistato in negozio.
Tutto bello quindi? Ovviamente no, ci sono anche gli aspetti meno piacevoli: può succedere che i frutti si ammalino, che le talpe si mangino le radici più tenere, che le malerbe ti soffochino il raccolto.
La scelta di un’orticoltura biologica ci obbliga ad un percorso più difficile e laborioso, senza scorciatoie e risultati a breve termine. E quindi pervicace resistenza alla chimica e moderato uso di prodotti a base naturale per la lotta alle malattie fungine e agli insetti dannosi. Niente trappole per le “amiche” talpe, soltanto una competizione alla pari fra chi scava le gallerie e chi le distrugge. Bando ai diserbanti: il verde che non c’entra si toglie a mano e diventa pacciamatura protettiva per le nostre piante.
E poi c’è l’effetto terapeutico anti-stress. In orto non ci sono orologi, non ti prende l’ansia, ci si muove in funzione esclusivamente della temperatura e della luce a disposizione.Sembra impossibile, ma le preoccupazioni si allontanano, i problemi si ridimensionano, le urgenze non sono più tali. E quasi sempre il buio ti coglie di sorpresa, stanco ma soddisfatto.
Mauro Dal Santo – redazione ecopolis