A 60 anni dalla strage criminale, il 15 novembre alla Feltrinelli, presentazione del libro “Vajont senza fine” di Mario Passi
Alba Tragica. Sembrava che la pioggia dattiloscrivesse l’asfalto, eppure il cielo era sereno. Da quel ticchettare della “Lettera 22” di mio padre, a sette-otto anni capivo che lui era tornato a casa, spesso solo per poche ore. Scivolavo nel suo studio sapendo già che stava scrivendo l’ennesimo articolo sul Vajont. Una volta finito lo sentivo dire al telefono: “Signorina vorrei una “R” per Milano”. Erre stava per “rovesciata”, la telefonata a carico della redazione nazionale de l’Unità alla quale iniziava a dettare: “l’Aquila, virgola, e poi la data eccetera…”.
Così iniziavano i suoi pezzi quasi quotidiani sull’andamento dell’infinito processo ai responsabili della catastrofe. Un procedimento giudiziario vergognosamente spostato nel capoluogo abruzzese per “legittima suspicione”: ovvero per sottrarlo a Belluno, la sua sede naturale, per evitare l’indesiderata attenzione, pesante quanto il monte Toc, dei sopravvissuti e dell’opinione pubblica locale. Un processo che si concluse senza colpevoli.
Mio padre Mario fu il primo inviato di un quotidiano nazionale a vedere con i propri occhi il risultato di quell’inimmaginabile colpo di maglio costituito da 500 mila tonnellate d’acqua, che la sera prima, il 9 ottobre 1963, trasformò Longarone in un’appiattita pietraia desolata. Un paese spazzato via in un istante, insieme alle sue 2000 anime.
Senza tregua. Da quell’alba livida del 10 ottobre, per 37 anni, fino all’infame esito definitivo, Mario seguì passo dopo passo tutta la vicenda, con centinaia di articoli e due libri: “Morire sul Vajont”, del 1968 e “Vajont senza fine” del 2003, ora ripubblicato da Baldini & Castoldi.
Da quest’ultimo libro, che ripercorre antefatti, fatti e misfatti, emerge con chiarezza che non fu il “destino cinico e baro” il responsabile della strage di Longarone. Non fu una tragica fatalità, ma un annunciato, evitabile, e ignorata, lunga abbrivio verso la catastrofe, come testimoniano le tante denunce, pubblicate prima dell’ecatombe, dalla corrispondente locale dell’Unità, Tina Merlin. A viziare la progettazione e la costruzione della diga fu certo la preminenza dell’aspetto economico, del profitto su ogni altra considerazione. Ma c’è molto di più: l’incapacità e la non volontà di leggere correttamente l’eco sistema ambientale e in quel caso i contesti geo-morfologici. Di qui il lungo concatenarsi incredibili sottovalutazioni, aggravate da perizie edulcorate quando non falsificate, omissione di controlli, convenienze politiche, omertà e illegalità, che portarono al disastro ambientale.
Un paradigma dogmatico. Dal 1963, però, passando da Seveso alla Val di Stava, dalla Haven alla terra dei fuochi, il concetto di “disastro ambientale” è cambiato. Allora i limiti biofisici dell’ambiente non facevano parte dell’equazione del “progresso, basata sui dogmi dell’oggettività della scienza, della neutralità della tecnologia e della crescita illimitata: un paradigma indiscusso e indiscutibile sia per i liberisti che per i marxisti. Per questi ultimi, anche per il PCI che denunciò i rischi del Vajont, si trattava – sic et simpliciter – di “storture dello sviluppo capitalista.” Si sarebbero evitate e risolte una volta che la classe operaia fosse riuscita a compartecipare al governo del paese, a garantire l’equa redistribuzione della ricchezza e la giustizia sociale, a centrare l’obiettivo del controllo democratico dei mezzi di produzione. Ma quale controllo democratico può scongiurare, ad esempio, i rischi intrinsecamente insiti nella produzione di energia nucleare? La cupa risposta ce l’hanno data, ad esempio, Three Mile Island, Chernobyl e Fukushima. Una risposta che ha messo in crisi le analisi e le soluzioni deterministe, e riduzioniste di quel paradigma “scientifico-tecnologico” meccanicista che, in ultima analisi è all’origine profonda della sempre più veloce crisi ambientale globale.
La lezione da trarre. Una crisi che non si manifesta soltanto con eclatanti disastri e con la crisi climatica. E’ una crisi, ad esempio, che progressivamente ha espulso la qualità dei centri urbani. Come Padova che per inseguire una malintesa idea di progresso ha distrutto la sua qualità urbana depauperando il tessuto sociale.
La città del Santo ancor oggi non riesce a superare un datato modello di sviluppo affermatosi negli anni ’50 e ’60, il cui concreto simbolo fu il “tombinamento” delle vie d’acqua interne negli anni ’50. Allora Padova voleva diventare la “Milano del Veneto”: puntava a grandi strade su cui far correre tante automobili e costruire tanti edifici. Come in tanti centri urbani abbiamo a che fare con settori economici arretratissimi, con lo sguardo rivolto a quel passato. Potentati ampiamente e trasversalmente rappresentati a livello politico istituzionale, che trovarono nella compravendita del territorio, nella rendita fondiaria, la fonte della loro privata valorizzazione economica. E poi Ie associazioni del commercio i cui esercizi sono concentrati in centro e che vedono ancora nella possibilità delle auto di arrivare fin alla loro soglia il motore dei loro affari.
Ma diversi decenni dopo l’affermarsi – in nome di una malintesa idea di progresso – di quel modello di città, i cambiamenti climatici, lo smog che ci attanaglia, la progressiva distruzione delle aree verdi, la forsennata edificazione e l’inaudito consumo di suolo che vede proprio a Padova i livelli più alti d’Italia, hanno reso quel modello decotto e assolutamente insostenibile.
“Vajont senza fine”, prefazione di Marco Paolini (Baldini&Castoldi ed), sarà presentato mercoledì 15 novembre, alle 18.00, alla libreria Feltrinelli di via San Francesco a Padova. Coordina Claudio Malfitano. Interverranno Lucio Passi e Massimo Carlotto.
Lucio Passi