Accogliere una persona in misura alternativa non significa “fare un favore”, ma contribuire a un territorio più sicuro e più giusto
Nell’immaginario collettivo la pena coincide ancora con il carcere, come se l’isolamento dalla società fosse l’unico modo per proteggere la società stessa. Nelle pagine di Ristretti Orizzonti, raccontiamo però che la detenzione non è l’unica via, né la più efficace per ridurre la devianza. L’ordinamento penitenziario italiano definisce con chiarezza che il trattamento deve essere rispettoso della dignità della persona, individualizzato e orientato al reinserimento sociale. Formazione, lavoro, attività culturali e soprattutto contatti con il territorio sono gli strumenti attraverso cui la pena può davvero diventare rieducativa. E le misure alternative incarnano questa logica. Specialmente la Messa alla Prova e l’affidamento in prova ai servizi sociali permettono di scontare la pena all’esterno favorendo un reinserimento più stabile. Tutte le ricerche dimostrano che la recidiva si riduce quando la pena si svolge in contesti dove le persone possono mantenere o ricostruire legami significativi.
Eppure, proprio nel momento del rientro in società, le persone condannate si scontrano non solo con il pregiudizio e la diffidenza della comunità, ma anche con un sistema che raramente offre percorsi strutturati di accompagnamento. Nonostante la stigmatizzazione che pesa sugli ex detenuti, Padova rappresenta un’eccezione parziale grazie alla vivacità del volontariato. Tuttavia, le realtà che si occupano di carcere sono sovraccariche e la domanda supera di gran lunga la capacità di accogliere. Infatti, le associazioni e le cooperative che collaborano con la giustizia sono oggi sommerse dalle richieste di persone in Messa alla prova – spesso condannate per reati stradali – e di persone in Affidamento in prova. Per loro l’attività di pubblica utilità o di volontariato sono componenti fondamentali del programma disposto dal giudice. Si tratta di poche ore settimanali, spesso da incastrare con un lavoro già precario, ma decisive per riconquistare la fiducia della comunità e costruire percorsi di emancipazione.
Il problema è che molte persone rischiano di non poter accedere alle misure alternative o di non completare il proprio percorso solo perché non trovano un ente disposto ad accoglierle. Questo non è un dettaglio burocratico. Significa invece perdere la possibilità di trasformare una condanna in un’occasione di crescita, e significa riportare dentro il carcere persone che potrebbero invece scontare la pena contribuendo al bene comune.
Per questo è fondamentale un’assunzione collettiva di responsabilità. Il terzo settore padovano, già ricco di competenze, valori e reti solidali, dovrebbe volgere maggiormente lo sguardo sulle persone coinvolte in percorsi di giustizia penale e accogliere la sfida di trasformare la punizione in partecipazione. Accogliere una persona in misura alternativa non significa “fare un favore”, ma contribuire a un territorio più sicuro e più giusto. Significa credere che il cambiamento è possibile, e che la comunità è il luogo in cui questo cambiamento può accadere.
Ristretti Orizzonti
