È stato reso obbligatorio in Italia, finora primo e unico Paese europeo, il Green public procurement (Gpp) nel pacchetto delle “disposizioni integrative e correttive” al nuovo Codice degli appalti pubblici.
Dallo scorso 20 maggio, per un lunghissimo elenco di amministrazioni pubbliche è scattato l’obbligo di rispettare in tutte le gare di appalto i criteri ambientali minimi (in sigla Cam) adottati dal Ministero dell’Ambiente.
Una “rivoluzione inaspettata” che può orientare verso la sostenibilità una leva importante come la spesa pubblica.
Sono i Cam, infatti, a determinare le “considerazioni” ambientali sulle diverse fasi delle procedure di gara: l’oggetto dell’appalto, le specifiche tecniche collegate alle modalità di aggiudicazione in base all’offerta economicamente più vantaggiosa, le condizioni di esecuzione. Non sono previste sanzioni per le stazioni appaltanti che non li rispettano, ma un’impresa che quei requisiti li possiede può impugnare gli atti con ricorso al Tar.
È giusto sottolineare che in Italia il Gpp sta prendendo strada lentamente quando in altri Stati questo processo era volontario da anni. La speranza è che l’obbligatorietà permetta di recuperare in breve tempo il ritardo accumulato e che faccia nascere un mercato in cui le parti ragionino in termini di circolarità e impatto ambientale.
«Con la spesa al 17% del Pil, la Pubblica Amministrazione è il più rilevante dei consumatori – spiega Silvano Falocco, direttore della Fondazione Ecosistemi – E grazie ai suoi tre milioni di dipendenti può influenzare enormemente le scelte di consumo individuali».
Purtroppo la mancanza di formazione nella Pubblica amministrazione è un freno a qualsiasi iniziativa imprenditoriale. Inoltre molti bandi continuano a uscire col massimo ribasso, senza far riferimento a nessun criterio minimo ambientale.
«Bisogna lavorare affinché questa obbligatorietà non resti lettera morta – dice Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente – Noi possiamo svolgere un ruolo importante nella promozione di queste norme, nella formazione degli attori coinvolti, a cominciare dalla nostra rete associativa, ma soprattutto nella verifica dei risultati raggiunti: un monitoraggio civico che eserciti una moral suasionverso quelle amministrazioni che per cattiva volontà, inerzia o ignoranza non adottano il Gpp».
Esempio virtuoso è il caso della Sardegna, l’eccellenza italiana in questo campo già dal 2009. Già da quando non c’era l’obbligatorietà, sull’intero territorio regionale aprivano una serie di ecosportelli. Era tutto su base volontaria – sottolinea Gianluca Cocco, direttore del Servizio sostenibilità ambientale dell’Assessorato all’Ambiente sardo.
Sanità esclusa, «ancora impenetrabile», oggi la Regione Sardegna compra tutto, o quasi, verde: il 92% nel 2016. Accanto alla sanità, il settore edile è quello più delicato.Ma quello sardo rimane un modello da esportare: è l’obiettivo del progetto Life “Gpp best”. Capofila è la Regione Basilicata, insieme alla stessa Sardegna, al Lazio, alla Fondazione Ecosistemi e al ministero dell’Ambiente romeno.
Ma i Cam da soli non bastano, se le Regioni non li affiancano con i piani d’azione previsti dalla normativa. Quelle che lo hanno fatto finora sono soltanto sei: Sardegna, Basilicata, Lazio, Puglia, Emilia Romagna e Veneto.
Per Patrizia Bianconi, referente per gli acquisti verdi della Regione Emilia Romagna, «le imprese hanno ben chiaro che per loro si tratta di un’opportunità, non di un peso, e sono decisamente più pronte della Pubblica Amministrazione».
«Il concetto di appalti socialmente responsabili trova forma nel 2011, quando la Commissione europea pubblica “Acquisti sociali. Una guida alla considerazione degli aspetti sociali negli appalti pubblici”» spiega Simone Ricotta, che si occupa di appalti sostenibili per Arpa Toscana. «Con gli appalti pubblici si deve lavorare anche per il rispetto dei diritti umani e le condizioni di lavoro lungo le catene di fornitura globali, non solo per gli aspetti ambientali. In futuro le stazioni appaltanti dovranno chiedere al loro fornitore di monitorare l’intera catena. Si può fare. In Svezia, Norvegia e Regno Unito già è così». Da noi ancora no, ma potrebbe essere l’ultima sorpresa di questa “rivoluzione” inaspettata.
Da un articolo di Fabio Dessì su La Nuova Ecologia (vedi l’articolo completo qui)
Sintesi a cura di Laura S. Poli – redazione ecopolis