Son trascorsi dieci anni dalle 3:32 di quella notte del 6 Aprile 2009 e la narrazione berlusconiana sulla rapida rinascita della città, sull’efficienza “meritoria” della Protezione Civile di Guido Bertolaso, si è ridotta infine a favoletta costruita ad uso e consumo dei media.
C’è ben poco di congruo nella tempistica ricostruttiva e nell’autoritaria gestione del post-catastrofe. L’Aquila ha subito un’esposizione mediatica notevole.
Soprattutto durante l’inaspettato G8 “deviato” con la conseguenza di vederla ridotta in un reality a cielo aperto, una vetrina in frantumi esposta alla retorica commozione del mondo.
Un sisma abbatte e distrugge strade ed edifici, ma anche recide legami e modifica il territorio. C’è un suolo, divenuto vivo, che senti nemico. Si avverte il bisogno atavico di stringersi assieme per recuperare quel minimo di relazioni e abitudini improvvisamente franate.
Mattia Fonzi è uno degli autori del libro Nati alle 3 e 32. Gli chiediamo:
Come è nata l’idea di questo progetto? È un libro celebrativo, di testimonianza o denuncia?
È un libro nato dal fatto che per il decennale del terremoto non volevamo che attraverso i media passasse una narrazione istituzionale che abbiamo combattuto per anni. Quella di Bertolaso e Berlusconi salvatori, dell’Aquila che rinasce e del paradigma “Dalle tende alle case”. Volevamo raccontare i primi due anni del post-sisma e tutte le mobilitazioni che ci hanno visti protagonisti. Non è un libro celebrativo, ma autobiografico con dell’autocritica e dove parliamo soprattutto di noi. Non è una denuncia. Non parliamo (quasi) mai dell’Aquila di oggi, ma solo di quella di allora, lontana anni luce da oggi.
Nel libro raccontate del “popolo delle carriole” e del riappropriarsi del Centro Storico al grido di: “L’Aquila è nostra”. È stato il vostro momento più alto? E quale quello più sconfortante?
La mobilitazione delle carriole è stato sicuramente un momento molto alto, perché autenticamente popolare. Abbiamo raggiunto picchi di seimila persone, c’era una composizione della piazza totalmente trasversale, dai movimenti sociali ai bambini, dalle famiglie ai commercianti. Realizzabile in quel preciso momento e oggi non più replicabile perché la città è diversa. Sicuramente uno dei momenti più alti. Momenti sconfortanti ce ne sono stati diversi, soprattutto ogni volta che in tv passava ossessivamente un messaggio che non rispondeva a verità.
Dopo dieci anni cosa rimane, a livello umano, delle vostre esperienze autogestite?
Oggi la città è cambiata rispetto a quella del 2010. Il tessuto sociale è definitivamente disgregato, il territorio è vastissimo e la densità abitativa bassa. Alcune scelte fondanti, come la localizzazione delle 19 aree del Progetto Case (i nuovi quartieri costruiti per gli sfollati dal governo Berlusconi) hanno mutato e non di poco l’identità urbanistica, e quindi sociale, della città.
Noi anche siamo cambiati, ma cerchiamo di mantenere un filo diretto con il nostro passato recente, e la pubblicazione del libro ne è una dimostrazione. Facciamo mille cose, siamo rimasti uno dei pochi soggetti in città totalmente indipendenti e per questo anche a volte “sanzionati” dalla politica locale. Organizziamo incontri, assemblee, progetti politici, manifestazioni, concerti. Ci sono stati anche alcuni “spin off”: una squadra di calcio composta da migranti, un giornale web, un collettivo sulla parità di genere e un’associazione per la promozione della cultura di montagna.
E ora, cosa vi attendete dal futuro?
Il futuro ci riserverà solo quello che saremo capaci di costruire con le nostre menti e i nostri corpi. Nessun altro lo potrà fare al posto nostro, né potremo delegare. Una città migliore è possibile solo se ci si mette a ricostruirla, socialmente, in prima persona e insieme agli altri.
Grazie Mattia, ci vediamo il 5 giugno a Padova (dettagli sull’evento qui)!
Flavio Boscatto – redazione ecopolis