Da tempo si fa sentire la denuncia dello smantellamento dei servizi per la salute mentale che crea gravissimi danni ai pazienti e non solo.
Il CoVeSaP (Coordinamento Veneto Sanità Pubblica) ha promosso il 17 e 18 novembre u.s. un seminario sulla salute mentale in Veneto perché dalle diverse province della nostra Regione emergeva un quadro che definire preoccupante è eufemistico. A partire dalle documentazioni e dalle considerazioni emerse in quell’occasione si è deciso di realizzare l’appello che sabato 22 gennaio è stato proposto dall’assemblea che si è tenuta a Padova. Di seguito proponiamo la relazione del dottor Guido Pullia, membro del direttivo nazionale della Società Italiana di Psichiatria Democratica che ha aperto i lavori del convegno.
«Assistiamo a un evidente sottofinanziamento alla salute mentale, alla riduzione degli orari di apertura o addirittura alla chiusura di presidi, a insufficienze di personale, soprattutto quello più qualificato, al persistere di una grave carenza di servizi rivolti all’infanzia e all’adolescenza, alla rinuncia a curare proponendo forme nuove di istituzionalizzazione, al ricorso frequente alla contenzione meccanica (legature) nei Servizi psichiatrici ospedalieri, dove non sono mancate persino morti sospette. È altresì messa in discussione la continuità ospedale-territorio, portato dell’esperienza storica di superamento dell’eredità manicomiale nell’organizzazione dei Dipartimenti di Salute mentale, avendo la Regione deliberato un coordinamento dei servizi ospedalieri con logiche di “reparti” che tradiscono il dettato della legge 180 recepita nella 833 (Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale). Si sta realizzando una psichiatria prevalentemente “di attesa”, ambulatoriale ed ospedaliera, che è tutt’altro che indirizzata alla prevenzione e alla prossimità, ma piuttosto si limita alla gestione delle “crisi” – quando non sono messi nelle condizioni di capire il contesto che le causa, è più facile che gli operatori si sentano costretti a ricorrere alla forza (vedi legare il matto) – e al “controllo sociale” dei lungo assistiti in luoghi lontani dai normali contesti di vita. Il sostanziale smantellamento dei servizi pubblici comporta un maggior ricorso al privato, da una parte alle cliniche convenzionate e dall’altra a strutture residenziali appaltate a cooperative cui è attribuito un compito quasi esclusivamente assistenziale, che prevale nettamente sul mandato alla cura e alla ri/abilitazione. L’integrazione del sociale e del sanitario nei Piani di Zona appare sempre più difficile, perché da una parte il sanitario è finito in una logica aziendale che premia il numero delle prestazioni più ancora della loro qualità e dall’altra gli Enti Locali si disinteressano sempre più a temi che delegano quasi del tutto alla Regione e alle Aziende Sanitarie.
Ne deriva una sempre minore chiamata della popolazione a partecipare alle scelte di politica sanitaria. Lo “stile di lavoro” che si è diffuso nei Dipartimenti di Salute Mentale è tornato quello che negli anni ’70 si chiamava la realizzazione di un “circuito del controllo” in opposizione a quello della “presa in carico”, che come tale dovrebbe occuparsi del bisogno d’aiuto di chi sta male e non solo della sua malattia – in altri termini del malato con le sue esigenze concrete di lavorare, abitare, stabilire relazioni affettive. È qui la differenza tra la “psichiatria” come disciplina medica – che tra l’altro si occupa di una malattia di cui non si conosce l’eziologia (la causa) né tantomeno la patogenesi (come da quella causa derivino i sintomi e i segni che definiscono quella malattia) – e la “salute mentale” come definita anche dall’OMS, cioé uno stato di benessere che non può prescindere dalla soddisfazione di bisogni e desideri umani. Il malato – anche quello psichiatrico – va prima di tutto ascoltato, rispettato e accolto, e poi, come previsto dall’art.3 della costituzione, messo nelle condizioni di poter fruire, superando per quanto possibile le sue difficoltà, dei concreti diritti di cittadinanza che spettano a chi vive nel nostro paese. È sempre suo diritto essere curato, e non consegnato all’assistenza se definito “cronico”, dev’essere sempre suo diritto avere degli operatori di riferimento che conoscano lui, il suo ambiente, la sua storia e lavorino in una equipe integrata in cui i diversi professionisti siano in grado sia di effettuare prestazioni mediche, psicologiche, ri-abilitative sia, e soprattutto, di coinvolgere il territorio (la cittadinanza, gli enti locali, le scuole, la cultura, ecc.) in un’utopia concreta (concetto basagliano) che ci permetta di vivere accettabilmente bene pur sapendo che la normalità non potrà mai fare a meno di confrontarsi con la follia, pena rendersi inumana.
Nel seminario di settembre è emersa la possibilità, tra l’altro, di pensare a modalità di remunerazione per la salute mentale diverse da quelle aziendalistiche “per prestazione” (con l’aberrazione dei tempi contingentati per le visite specialistiche e le psicoterapie e la difficoltà di effettuazione di visite domiciliari, dai tempi imprevedibili), ma per “progetti” da realizzare come “percorsi terapeutico riabilitativi personalizzati” anche attraverso “budget di salute” finalizzati al lavoro, all’abitare, all’affettività, alle relazioni sociali, al divertirsi. Non dovrà essere più necessario che il teatro, il cinema, gli scambi di periodi di vacanze in diverse località, le feste, la musica siano chiamate musicoterapia, danzo terapia, terapia occupazionale, ecc, per ricevere il nulla osta dei finanziamenti delle aziende sanitarie.
Cosa proponiamo, in concreto. In sostanza, di realizzare appieno quanto previsto dalla legge 180, nota come “legge Basaglia”, interamente recepita dalla legge di riforma sanitaria 833 del 1978. Questa legge è troppo spesso dimenticata e prevede il ricorso all’ospedalizzazione come “estrema ratio” a cui quindi si dovrà ricorrere il meno possibile: a tal fine, esclude che si debbano riutilizzare spazi ex manicomiali o realizzare “reparti” ospedalieri. Si esprime infatti in favore di “servizi” ospedalieri, e – come tali- con non più di 16 posti letto, gestiti a partire dal territorio. Anche i Trattamenti Sanitari Obbligatori possono essere effettuati solo “se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere”. Questo significa, evidentemente, che è necessario disporre di presidi territoriali, che la legge individua nei Centri di Salute Mentale, in grado di intervenire 24 ore su 24. Gli standard dei posti letto in psichiatria furono individuati negli anni successivi al 1978 in 1p.l. ogni 10.000 abitanti. È evidente che occorre disporre di risorse adeguate, tanto che la Conferenza dei Presidenti delle Regioni si espresse per destinare e spendere per la salute mentale almeno il 5% del Fondo sanitario nazionale (dal Seminario di studi “Liberarsi”, Napoli 2016).
Ma, più alla radice della questione, il diritto alla salute, previsto come tale dall’art. 32 della costituzione, è ovviamente anche diritto alla salute mentale e non ci sono vincoli di età, sesso, etnia di origine, che possano limitarlo. Dichiarare, come fa di fatto la Regione, con provvedimenti come la DGR 1673/2018 , che per i “cronici ultraquarantacinquenni” si provvederà a realizzare strutture – collocate, in barba alle normative, in posti lontani da abituali luoghi di vita e addirittura talora in spazi ex manicomiali – in cui la cura sarà in secondo piano rispetto alla mera assistenza – dei “minicomi” è totalmente inaccettabile. Molte esperienze realizzate nella nostra regione dimostrano che spazi “semiresidenziali” (Centri Diurni, ricchi di “laboratori” più che di “ambulatori”, Day Hospital in alternativa agli Spdc ) possono consentire di effettuare un’adeguata presa in carico della stragrande maggioranza delle persone con problemi di salute mentale, senza doverle “istituzionalizzare”. I percorsi nelle Comunità devono essere definiti nei tempi e negli obiettivi, perché si realizzi una ri/abilitazione che in luoghi lontani dal mondo reale è evidentemente impossibile da realizzarsi.
L’abolizione delle contenzioni meccaniche non dovrebbe nemmeno essere oggetto di discussione. Legare una persona è commettere un reato – anzi, una serie di reati: sequestro di persona, violenza privata, lesioni volontarie – che le leggi perseguono con pene appena inferiori a quelle per gli omicidi: il sanitario che “lega” non mette in atto un intervento sanitario (lo dice la Cassazione) ma secondo la legge può salvarsi in tribunale se dimostra di essersi trovato in una situazione eccezionale di emergenza. Ora, come mai in diversi SPDC italiani non si lega mai e addirittura si riesce a tenere le porte aperte? I protocolli normati dalla nostra regione purtroppo non dicono come si devono realizzare servizi in grado di non praticare questi reati ma pare siano stati stilati solo per non fare incorrere i sanitari nei rigori delle leggi che assicurano quello che nei paesi anglosassoni si chiama l’ “habeas corpus”.
Come rendere concreta la possibilità di ricevere cure adeguate se siamo colpiti da un disagio psicologico o psichiatrico? Potendo ricorrere a equipe di lavoro che possano seguirci nel tempo, e, se necessario, anche per tutta la vita. Ma direi di più: i soggetti fragili, come tali, devono avere di più degli altri perché le loro possibilità di realizzarsi pienamente come cittadini sarebbero compromesse senza un aiuto in più, un “investimento sociale” per rimuovere le barriere che rendono difficile accedere al lavoro, alla casa, alle relazioni, agli affetti, al gioco (art. 3 della Costituzione). Qui si misura l’efficacia o la mancata efficacia dell’integrazione sociosanitaria prevista nei Piani di Zona: richiamiamo il dovere dei Comuni di essere e sentirsi protagonisti, di promuovere una comunità solidale.
Una postilla sul “bonus psicologo”. Pensiamo che sia un provvedimento inappropriato ed inadeguato. È chiaro che il Covid ha causato un enorme disagio a tutta la popolazione, in particolare ai più giovani – ma anche agli anziani che si sono sentiti ancor più soli. La necessità di “distanziamento sociale”, lo dice il termine stesso, ha isolato il malessere di chi ha patito la malattia, di chi l’ha vista nel suo vicino di letto in ospedale, di chi non ha potuto vedere per mesi i suoi cari, di chi ha saputo che sono morti senza poterli assistere, di chi non è andato a scuola, di chi non ha potuto frequentare i suoi amici, di chi è stato costretto a casa in situazioni conflittuali, e l’elenco è lungo. Ma qui si misurano anche i danni dello smantellamento di servizi psicologici presenti a suo tempo nelle scuole, nei consultori, nei dipartimenti di salute mentale, nei servizi minori, nei dipartimenti delle dipendenze, … il pannicello caldo di qualche seduta presso un professionista non necessariamente inserito in una equipe integrata, rischia di incrementare ulteriormente una più che legittima ed ovvia domanda di cura psicologica che le persone meno abbienti, le piuù colpite, non potranno proseguire, perché i costi successivi non se li potranno permettere. Ricucire quel “distanziamento” a cui siamo tutti stati costretti non sarà facile e richiede una politica di nuovi investimenti in quei servizi pubblici integrati che abbiamo sommariamente elencati. Ribadiamo che il diritto alla salute mentale dev’esserci per tutti e per tutto il tempo necessario, e senza costi per i bisognosi (art.32 della Costituzione)».
Guido Pullia, Direttivo nazionale Società Italiana di Psichiatria Democratica
foto Umit Bulut