Ricordando Antonio, che non era certo solo il suo reato

Nelle rassegne stampa e nelle cronache televisive di questi giorni avrete letto come prima notizia che il detenuto Antonio Floris è “evaso da un permesso”, e a seguire le descrizioni fantasiose di quella evasione.

Niente di tutto questo, la storia è anche più tragica, Antonio è stato ucciso, ma io non so cosa è successo e non mi interessa nemmeno fare ipotesi, non ho ipotesi, ma non ho mai creduto all’evasione, e soprattutto di lui voglio ricordare, per la sua famiglia e per tutto il bene che gli voleva, la sua umanità.

Antonio è stato senz’altro un delinquente, e io non voglio fare finta di dimenticarmelo, ma ce la stava mettendo tutta per diventare una persona diversa. Lo faceva per la sua famiglia, una famiglia onesta, colta, dove lui era un po’ la “pecora nera”, e ricordo sua sorella, che arrivava ogni tanto dalla Sardegna pur di vederlo e stargli vicino, e che diceva spesso quanto le dispiaceva che suo fratello avesse usato così male la sua intelligenza.

E forse la passione per lo studio che aveva era proprio un modo per “ripagare” la sua famiglia e i suoi amici per averli tante volte “traditi”: e infatti, anche se in passato già aveva fatto le scuole superiori, lui si era buttato sui libri anche in galera e aveva completato gli studi all’Istituto Gramsci, sempre da primo della classe, e poi si era impegnato nella redazione di Ristretti Orizzonti, con una grande competenza in questioni di legge, lui era “l’avvocato” della situazione, ma anche con una capacità di vedere il mondo con occhi che non avevano dimenticato la poesia e l’amore per la vita.

Per ricordarlo com’era davvero, con i suoi disastri, i suoi anni di galera, ma anche il suo desiderio di ritrovare la sua umanità, voglio proprio ripubblicare un suo racconto, la storia di un albero di pero che è anche una delle pagine più significative che io abbia letto sul carcere.

Ornella Favero, direttore di Ristretti orizzonti e neo Presidente Cnvg

“L’albero del pero” di Antonio Floris

Seguire di giorno in giorno il crescere lento e faticoso di un albero davanti alla finestra della cella è un modo diverso per provare a spiegare quanto può essere lunga una pena.

La finestra della mia cella, nella quale vivo da oltre tre anni, si affaccia su un campetto incolto in mezzo al quale si innalza, solitario tra le erbacce, un alberello di pero selvatico. Ormai sono tre primavere che lo osservo e mi sono accorto che ogni primavera questo albero allunga la sua cima di circa 30 centimetri. In pratica da quando lo sto osservando è cresciuto di quasi un metro. Parlando di quest’albero con un altro detenuto, sono venuto casualmente a sapere che era stato lui a piantarlo nel lontano 1995, ovvero 16 anni fa. [continua …]